- Paola Persichetti
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Indice dei contenuti
- Il carattere Giudaico e Cristiano di Pentecoste
- Rut: Umiltà che Lotta
- Una festa ebraica: Shavuot
- Una festa agricola
- Il Significato del Frumento
- Matan Torah: il dono della Legge
- La Tradizione Ebraica sulla Morte di Re Davide
- Il dono dello Spirito a Shavuot/Pentecoste
- Pentecoste: una Festa Cristiana per tutti i popoli e tutte le lingue
- Considerazioni finali: La lettura liturgica del rotolo di Rut
di prof. ssa Paola Persichetti
Paola Persichetti, oltre ad essere leader del comitato spontaneo La Gente come Noi nella lotta contro l’imposizione di Green pass e Vaccini obbligatori, è Laureata in Lingue e Letterature Straniere, inglese, francese, lingua e Cultura ebraica, all’Università di Perugia con 110/110, bacio accademico e menzione d’onore. Corso di storia e del Cristianesimo antico, università Perugia. Master universitario in fonti, storia, istituzioni e norme del Cristianesimo ed Ebraismo.
Come la Pasqua, anche la Pentecoste cristiana affonda le proprie radici nella festività ebraica. La prima comunità, riunita nel cenacolo, essendo formata da ebrei, festeggiava la pentecoste ebraica. Il nome ebraico di questa festa è Shavuot.
Shavuot è la stagione della mietitura del grano in Terra d’Israele. Nell’antico Israele la mietitura durava sette settimane durante le quali si respirava un’atmosfera di gioia (Geremia 5:24[10], Deuteronomio 16:9-11[11], Isaia 9:2[12]). Si iniziava con la mietitura dell’orzo durante Pesach e si terminava con la mietitura del frumento a Shavu’òt. Shavu’òt era quindi la festa conclusiva della mietitura del grano, così come le otto giornate di Sukkot rappresentavano il termine del raccolto della frutta. Durante l’esistenza del Tempio di Gerusalemme, si faceva un’offerta di due pagnotte della farina di Shavuot. Secondo Esodo 34:18-26[13], Shavu’òt è la seconda delle tre feste che venivano celebrate nel Tempio e gli Israeliti dovevano recarvisi portando con sé i primi frutti del raccolto:
« Porterai alla casa del Signore, tuo Dio, la primizia dei primi prodotti della tua terra», (Esodo 34:26, su laparola.net.)
Non era prescritta una quantità minima: «Poi celebrerai la festa delle settimane per il Signore tuo Dio, offrendo nella misura della tua generosità e in ragione di ciò in cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto» ( Deuteronomio 16:10-10, su laparola.net.)
Nel Levitico 23:15-21 vengono definiti i sacrifici che dovevano essere offerti dalla comunità: essi prevedevano il sacrificio di numerosi animali.
Il periodo di tempo che separa la Pasqua dalla Pentecoste nella tradizione giudaica era già inteso dall’antichità come una lunga preparazione, di cinquanta giorni o sette settimane, per poter commemorare il dono della Legge. In questo tempo si faceva il conteggio dei giorni dell’omer (una misura di grano di circa 2 litri), ovvero dell’offerta d’orzo che doveva essere ripetuta tutti i giorni fino a Pentecoste, ma in realtà ci si preparava a ricevere di nuovo le parole di Dio, date a Mosè sul Sinai, e poi date ad ogni credente che vuole ascoltarle e metterle in pratica.
Sarà nella mistica ebraica, nella lettura cabalistica, che il periodo tra Pasqua e Pentecoste diventerà un vero e proprio percorso di accrescimento spirituale e di liberazione, dove ognuno dei 49 giorni corrisponde a una caratteristica della personalità sulla quale lavorare e che può essere migliorata; l’ultimo giorno, il cinquantesimo, non si può fare più nulla, perché è Dio, con la sua grazia, che agisce e compie l’opera.
Sempre secondo una tradizione giudaica, siccome a Pentecoste – come vedremo – è stata donata la Legge, allora in questo cammino di 49 giorni, e precisamente ogni giorno, si deve rileggere e studiare la Torah, perché possa essere di nuovo accolta: essa, infatti, si può ricevere e imparare solo dopo aver acquisito 48 “qualità”, come è detto in un passo della più famosa raccolta di detti rabbinici, l’Etica dei Padri: «La Torah è ancora più grande del sacerdozio, e della regalità, perché la regalità si acquista con trenta prerogative, mentre il sacerdozio con ventiquattro doni [ci si riferisce a testi quali 1Sam 8,11ss. per la regalità, e Lv 21 e Nm 18 per il sacerdozio]. La Torah invece si riceve per mezzo di 48 qualità» (Pirkei Avot 6,6).
Il carattere Giudaico e Cristiano di Pentecoste
In questo breve saggio vediamo anzitutto il carattere giudaico di Pentecoste, e poi quello cristiano.
Come si celebra Shavuot? È consuetudine rimanere svegli l’intera notte leggendo e studiando la Torah mentre, durante le celebrazioni della mattina, si legge il libro di RUT.
E ora Rut, la moabita. Tra le donne della genealogia ricordate da Matteo è lei la più inquietante, e “giustamente” a lei il Primo Patto dedica un brevissimo, ma fulminante libro.
I moabiti sono una stirpe che inizia col superstite di Sòdoma, Lot. Fuggito da Sòdoma in fiamme Lot si ritira con le figlie sulle montagne. Le figlie lo ubriacano e giacciono con lui per avere discendenza; una situazione che per certi versi ci ricorda quella di Tamar. La prima di queste figlie concepisce Moab, mentre la seconda colui che sarà il capostipite degli Ammoniti. Perciò entrambi, l’Ammonita e il Moabita, saranno indicati lungo tutta la tradizione biblica come popoli incestuosi. Essi non entreranno nella comunità del Signore: «Nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore» (Dt 23,4). Ed ecco che proprio una moabita è l’antenata di Davide e perciò dello stesso Messia!
D’altronde, anche prima di Matteo, Rut figurava tra gli antenati del grande Davide, e perciò le era dedicato quel piccolo, grande Libro, che nella Bibbia ebraica è collocato tra gli “Scritti”, insieme ai Salmi, ai Proverbi, a Giobbe e al Cantico. Ciò fa emergere ancora di più la straordinarietà della testimonianza che ci offre il libro di Rut: Umiltà che lotta
Rut: Umiltà che Lotta
Il contenuto del libro è noto, ma vale la pena ricordarlo. Un uomo di Betlemme di Giuda è costretto ad emigrare dalla sua terra a quella di Moab a causa di una carestia. Emigra con la moglie Noemi (che significa “dolcezza”) e i suoi due figli. La famiglia si stabilisce nel territorio di Moab senza alcun conflitto con gli indigeni che vi risiedono (o almeno nulla si dice a proposito), e tuttavia è colpita spietatamente dal Signore. È una sorte, la sua, simile a quella di Giobbe. “Senza ragione” il Signore li mette alla prova più dura.
Dopo la morte del marito Noemi deve piangere anche quella dei figli, uno dei quali si era sposato appunto con Rut. Noemi muta, allora, il suo nome in quello di Mara (che vuol dire “amarezza”) e dice alle nuore: «Io sono troppo infelice per potervi giovare, poiché la mano del Signore è stesa contro di me» (Rut 1,13). Noemi è abbandonata, sola e straniera nella terra di Moab. E invita le due nuore ad abbandonarla, a non seguirla nel suo disperato ritorno in Giudea.
Pur addolorata di dover abbandonare la suocera, una di esse decide di stare col suo popolo. Rut invece, senza spiegarne il motivo, apparentemente senza alcuna ragione, non si stacca da Noemi-Mara. «Non insistere con me perché ti abbandoni – ella dice – perché dove andrai tu andrò anche io, dove ti fermerai mi fermerò. Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove tu morirai, io morirò e sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole se altra cosa che la morte mi separerà da te» (Rut 1,16-17).
È una parola assolutamente imprevedibile, fatta di amore assoluto, una decisione che nulla calcola, che nulla scambia. Puro dono. E tuttavia è testimonianza di un amore totalmente umano e terreno; Rut ama in modo incondizionato una persona in carne ed ossa. Non si è convertita al Dio di Noemi, ma poiché ama Noemi fa proprio anche il Dio di quest’ultima. Al Dio di Israele ella perviene attraverso l’amore per questa sua prossima, per il suo prossimo più abbandonato derelitto, disperato.
E dunque Rut lascia la sua terra i suoi consanguinei, abbandona tutto “ il suo” per donarsi tutta all’altra.
Matteo non poteva non ricordare in questa figura le radicali parole della “decisione” di Gesù stesso: «Lascia tutto, seguimi» (cfr. Mt 19,21). Così fa Rut: per seguire Noemi lascia perfino il suo Dio, e si umilia ai mestieri più poveri, spigolando dietro i contadini, raccogliendo ciò che avanza dal loro lavoro, come i più poveri dei poveri in Israele.
Noemi senza marito e senza figli; Rut senza figli, vedova, e per di più straniera, e non una straniera qualsiasi, ma una moabita, una del popolo incestuoso e maledetto. Entrambe ridotte all’umiltà totale: umili davvero da humus, letteralmente “a terra”.
Ma Rut è della stirpe di Tamar e di Raab. La sua umiltà è fatta anche di lotta. Ella lavora nelle campagne di Booz (che significa “in lui la forza”). Pur essendo un parente di Noemi, egli non ha alcun obbligo diretto di accudirne la famiglia. Tuttavia dà cibo e lavoro alla moabita, la accoglie e lentamente (se ne accenna nel racconto, anche se con grande pudore) prova affetto per questa straniera, fino a riscattarla dal primo parente e a farla sua sposa. Dal legame tra Rut e Booz nascerà il padre del padre di Davide.In questo breve saggio vediamo anzitutto il carattere giudaico di Pentecoste, e poi quello cristiano.
Una festa ebraica: Shavuot
La parola Pentecoste è un prestito da un aggettivo greco che significa “cinquantesimo”, e si riferisce ai cinquanta giorni che devono passare dalla Pasqua, secondo quanto previsto da Lv 23,15-16.
Pentecoste/Shavuot è una delle tre feste di pellegrinaggio (Shalosh Regalim) previste nella Legge, secondo quanto scritto nel libro del Deuteronomio, al capitolo 16, dove è richiesto che ogni anno gli ebrei maschi, in rappresentanza di tutto Israele, salgano a Gerusalemme «per farsi vedere dal Signore» (Dt 16,16; CEI: «si presenterà»). Se le feste di pellegrinaggio di Pasqua e delle Capanne sono, rispettivamente, memoria della liberazione dall’Egitto e del tempo dagli Ebrei passato nella provvisorietà delle capanne, nel deserto, a cosa rimanda invece Pentecoste/Shavuot?
Prima di rispondere, si deve notare che la sua collocazione, tra Pasqua e festa delle Capanne, è centrale perché legata alla straordinarietà della rivelazione sinaitica che essa celebra.Anche per questa ragione Pentecoste, che deve aver avuto in primo luogo un significato legato ad un particolare tempo dell’anno e alle attività ad esso collegate, acquisisce in seguito il suo pieno significato religioso rispetto al dono della Legge data a Mosè. Allo stesso modo, Pasqua era anzitutto una festa che aveva a che fare con la nascita degli agnelli e con l’inizio della mietitura, e poi diventa, a causa di quanto accaduto in “quella” particolare Pasqua, la memoria della liberazione dall’Egitto. Pentecoste e Pasqua sono allora «riti che consentono la costruzione della storia della nostra“ salvezza”.
Una festa agricola
Nel libro di Rut, a partire dal secondo capitolo, si parla della mietitura del frumento e dell’orzo, a cui anche la moabita partecipa: il culmine di questo raccolto è proprio la festa di Pentecoste, che inizialmente è una festa agricola, chiamata Hag ha Katzir, “festa della mietitura”, secondo la definizione che appare nel più antico calendario cultuale, in Es 23,16.
La mietitura culmina con l’offerta del grano da portare al Tempio, secondo quanto scritto in Lv 23,15-16: «Dal giorno dopo il sabato, cioè dal giorno in cui avrete portato il covone per il rito di elevazione, conterete sette settimane complete. Conterete cinquanta giorni fino all’indomani del settimo sabato e offrirete al Signore una nuova oblazione» (di frumento nuovo). Il gesto di offrire le primizie si spiega con la memoria della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, perché le offerte dovevano essere fatte a Yhwh, che aveva dato la terra al suo popolo, secondo quanto scritto nel libro del Deuteronomio: «Ti presenterai al sacerdote in carica in quei giorni e gli dirai: “Io dichiaro oggi al Signore, tuo Dio, che sono entrato nella terra che il Signore ha giurato ai nostri padri di dare a noi”. Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto…”» (Dt 26,3-5).
Anche se nel libro di Rut non è nominato espressamente quest’obbligo, vi è un collegamento con il testo dal Levitico, alla fine del secondo capitolo, quando leggiamo che la moabita si trova nelle terre di Booz «a spigolare, sino alla fine della mietitura dell’orzo e del frumento» (Rt 2,23).
Tale espressione ci porta a pensare che la spigolatura di Rut si sia conclusa in occasione di quella festa. Infatti è scritto così in quel brano: «Conterai sette settimane [dalla festa di Pasqua]. Quando si metterà la falce nella messe, comincerai a contare sette settimane e celebrerai la festa delle Settimane per il Signore, tuo Dio, offrendo secondo la tua generosità e nella misura in cui il Signore, tuo Dio, ti avrà benedetto. Gioirai davanti al Signore, tuo Dio, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava, il levita che abiterà le tue città, il forestiero, l’orfano e la vedova che saranno in mezzo a te, nel luogo che il Signore, tuo Dio, avrà scelto per stabilirvi il suo nome. Ricordati che sei stato schiavo in Egitto: osserva e metti in pratica queste leggi».
Per il lettore che osservava i precetti del Levitico e del Deuteronomio, e che leggeva Rut, «e che conosceva bene il tempo che richiedevano le diverse attività agricole, la questione era semplice: Rut ha spigolato per un tempo considerevole, per l’intero raccolto dell’orzo e del frumento, ovvero fino a Pentecoste.Oltre a questa spiegazione che, per prima, collega Rut a Pentecoste, possiamo tentarne una ulteriore, sempre centrata sull’idea di un “raccolto” dei frutti della terra. A Shavuot, Rut finalmente raccoglie non solo il frutto del suo umile lavoro (orzo e frumento), ma anche quello delle sue buone opere, e merita così di poter incontrare il suo futuro marito, Booz, dal quale discenderanno Davide e il Messia.
Il Significato del Frumento
CERCHIAMO DI CAPIRE IL SIGNIFICATO DEL FRUMENTÒ IN QUESTA FESTA.Il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile: […] paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele” (Dt 8,7-8)
Piante fondamentali nell’alimentazione dell’uomo e degli animali, i cereali segnano il passag- gio storico dell’umanità, dall’esperienza nomade, basata sulla caccia e sulla pesca, ad una vita stabile, caratterizzata dall’agricoltura, con la coltivazione dei cereali e degli ortaggi. In questo modo, i cereali diventano il segno della stabilità di un popolo e la sua appartenenza ad una terra che permetteva di vivere, perché produce il raccolto.
Sono questi i significati profondi che i cereali assumono nella Bibbia; oltre ai cinque alberi, la presentazione della Terra Promessa (Dt 8,7-8), propone due tipi di cereali, il frumento e l’orzo come segno di una terra stabile, offerta al popolo eletto, e come un legame d’appartenenza a quella terra.Le coltivazioni del frumento e dell’orzo erano usuali in Palestina; per questo motivo sono molti i riferimenti ai cereali e alle attività agricole.
Il frumento, simbolo di fertilità e d’abbondanza, è un cereale che comprende varie specie, quali il grano tenero, il grano duro, il farro e la spelta. Simbolo particolare della Terra Pro- messa (Dt 8,8; 11,14; 33,28; 2Re 18,32; 72,16; 81,14-17), l’abbondanza del raccolto, in Pale- stina, era testimoniata dalle promesse di pagamento, fatte da Salomone, con grano ed orzo, agli operai del Tempio (2Cr 10,9). Il frumento era il segno tangibile della benedizione di Dio, con un raccolto abbondante (Sal 65,14; Ger 31,12; Os 2,24; 14,8; Gl 2,24) e della sua condan- na, quando il raccolto era perduto (Lam 2,12; Gl 1,10.11; Ger 12,13; Ag 1,11).
Le grandi coltivazioni di cereali, che caratterizzavano i paesaggi della Palestina, hanno ispira- to molti messaggi biblici. Immagine dei nemici da mietere con la falce (Is 17,5; Gl 4,13; Ap 14,14-16), la messe era, anche, presentata come un campo coltivato da Dio, immagine del mondo intero (Sal 65, 10-14) e del Regno dei cieli.
FRUMENTO: Il gran contatto che Gesù aveva con i campi di frumento, per il suo ministero itinerante (Mt 12,1), lo condussero ad utilizzare, in molte parabole, l’immagine della messe e del frumento come annuncio del Regno di Dio e del giudizio che si realizzerà con la sua venuta (Mt 3,12; 9,37; 13,3-23; 24-30; 36-43; Mc 4,1-20; 26-28; Lc 8,4-15; Gv 12,24).Le parabole ispirate al mondo agricolo, fanno pensare che Gesù conoscesse bene le attività dei contadini e sapesse che con il frumento si otteneva la farina, necessaria per l’alimento princi- pale del nutrimento umano: il pane.
Quest’alimento appare in molti modi nella sua predicazione: richiesta quotidiana nella pre- ghiera al Padre (Mt 6,11, Lc 11,3), diventa l’occasione per manifestare il Regno di Dio, già presente, sfamando un popolo affaticato e desideroso di speranza (Mt 14,13-21; 15,32-39; Mc 6,32-44; 8,1-10; Lc 9,10-17; Gv 6,1-15).Gesù rende il pane segno particolare del Regno, quando nell’Ultima Cena lo presenta insieme al vino, come sacramento del suo Corpo offerto per la salvezza degli uomini; egli, infatti, si propone come il “pane vivo disceso dal cielo” (Gv 6,32-58); chi mangia il pane diventato il Corpo di Gesù, sacrificato sulla croce, avrà la vita del Regno.
Profeticamente, il pane eucaristico, era stato annunciato sin dalla nascita di Gesù a Betlemme; in ebraico Bet-lehem, significa letteralmente “casa del pane”, nome ispirato probabilmente al fatto che la cittadina era circondata da campi di orzo e di frumento, Betlemme si presentava come un granaio e probabilmente il pane usato da Gesù per l’Ultima Cena era stato prepara- to con farina di orzo e di frumento; infatti il pane dei poveri era prodotto con il miscuglio di queste due farine. Nell’AT c’è un rito, molto antico, che presenta l’offerta di pane e di vino a Dio, da parte di Melchisedec, sacerdote, che con quel gesto chiede la benedizione per Abramo (Gn 14,17-18). Nella tradizione cristiana si percepisce questo rito come una profezia del sacrificio eucaristico.
ORZO , RUT, BETLEMME: L’orzo, graminacea dalle spighe simili al grano, era una coltivazione importante della Giudea, così come ci racconta il libro di Rut, che ha come scenario le grandi coltivazioni d’orzo nella zona di Betlemme. Cereale adeguato ad ogni clima, resistente alla siccità, era considerato fon- damentale per la sopravvivenza, in quanto con la sua farina si preparavano focacce e pane. Le citazioni bibliche presentano i campi d’orzo, la sua farina e il pane come segno di sicurezza quotidiana per la sopravvivenza, di stabilità in una terra e di legame profondo con l’ambiente agricolo (Rt 1,22; 3,7; 2Sam 14,30; 17,8; 1Cr 11,13; Ger 41, 8; Gv 6,9).
Questi aspetti sono evidenziati nella vicenda di Rut, che nel contesto della coltivazione dell’or zo, ritrova sicurezza, stabilità e una nuova relazionalità con la terra e con gli altri. Così la di- struzione e la perdita del raccolto d’orzo assumevano connotati di grande sventura, perché era segno non solo di carestia ma anche di perdita di stabilità e di legame con la propria terra (Es 9,31; Gb 31,38-40; Gl 1,11; Ap 6,6).
Rispetto al grano, per valore nutritivo, l’orzo è meno importante e vale metà del suo valore (2 Re 7,1.16; Ap 6,6), ma l’orzo, maturando precocemente, si rende disponibile a essere con- sumato prima del grano e a essere offerto nel culto. Nella festa di Pesach si offrivano, infatti, le primizie e l’orzo era il primo raccolto destinato a diventare pane (Es 9,31). L’Esodo ricorda che la settima piaga che colpì l’Egitto fu la grandine che distrusse l’orzo: «Ora il lino e l’orzo erano stati colpiti, perché l’orzo era in spiga e il lino in fiore; ma il grano e la spelta non erano stati colpiti, perché tardivi» (Es 9, 31-32).
L’orzo, nel culto, era portato come omer, vale a dire, manipolo o misura di spighe raccolto e of-ferto nel Tempio, all’indomani del primo giorno di Pesach, il 16 di Nisan: «Porterete al sacerdote un fascio di spighe, come primizia della vostra raccolta; il sacerdote agiterà il fascio di spighe davanti al Signore, perché sia gradito per il vostro bene; l’agiterà il giorno dopo il sabato» (Lv 23,9-14). Questo fascio era costituito senza dubbio da spighe d’orzo. L’offerta dell’omer di orzo, oltre al significato di misura, aveva anche un significato temporale religioso: il giorno dell’offerta dell’orzo iniziava il calcolo di altri 49 giorni che conducevano alla festa di Shavuot, che cadeva sette settimane dopo la Pesach, cioè, dopo la Pasqua (Lv 23,15-21).
L’orzo nel libro di Rut ricorre 5 volte: la vedova Rut e la suocera Noemi, spinte dalla fame, giungono a Betlemme «quando si cominciava a mietere l’orzo» (1,22) e Rut che va a spigolare raccoglie circa una quarantina di chili di orzo (2,17) e rimane a spigolare «sino alla fine della mietitura dell’orzo e del frumento» (2,23). Noemi le dice che Booz «proprio questa sera deve ventilare l’orzo sull’aia» (3,2) e dorme accanto a un mucchio di orzo (3,7). Rut gli si pone accanto e da Booz riceve sei misure d’orzo che gliele pone sulle spalle (3,15) per portarle alla suocera (3,17) e sfamarsi insieme per lungo tempo e in abbondanza.
In pratica, l’orzo ambienta la narrazione: il viaggio di Rut e Noemi fu provocato dalla carestia che spinse le due donne e cercare il nutrimento. Si svolge in primavera, tempo della raccolta dell’orzo. Suscita solidarietà: secondo la Torah, i poveri avevano diritto a raccogliere le spighe che cadevano dai covoni e i padroni il dovere di lasciarli spigolare.
I quattro Vangeli narrano la moltiplicazione dei pani compiuta da Gesù, ma solo quello di Giovanni specifica che i cinque pani erano pani di orzo, il cibo dei poveri che sazia tutti (6,9.13) ed evidenzia che l’evento avvenne in primavera, nel clima pasquale: «Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei» (6,4).I pani di orzo richiamano il profeta Eliseo (2Re 4, 38-44) che moltiplicò venti pani d’orzo che saziarono cento persone. Gesù, profeta escatologico, invece, moltiplica cinque pani d’orzo per cinquemila persone e con gli avanzi dei cinque pani d’orzo riempirono dodici canestri. Anche Rut ricevette orzo in abbondanza ed ella «mangiò a sazietà e ne avanzò». Il sovrappiù manifesta la sovrabbondante generosità di Dio che giunge nella solidarietà fraterna, precoce e umile come l’orzo.
Matan Torah: il dono della Legge
In qualche momento della storia d’Israele, la festa di Shavuot diventa meno importante per il suo carattere agricolo, e viene più strettamente connessa all’esodo dall’Egitto: il nome di Pentecoste ora esprime pienamente il suo legame con la Pasqua. Non è però confusa con questa festa, che celebra direttamente quel “passaggio”; è vista piuttosto come la memoria di ciò che accade dopo la liberazione dalla schiavitù, in un territorio liminale che è il deserto del Sinai. Secondo quanto scritto in Es 19, nel deserto ha luogo la stipulazione dell’alleanza tra Israele e Dio, con l’accoglienza da parte del popolo del dono della Torah. In un antico testo apocrifo ebraico (risalente almeno al II sec. a.C.), il Libro dei Giubilei, 6,21, si legge che «la festa delle primizie ha un duplice contenuto»: non solo quello agricolo, ma anche quello legato alla celebrazione dell’alleanza sinaitica.
Come si è visto sopra, il periodo di tempo che separa la Pasqua dalla Pentecoste è nel rabbinismo come una lunga preparazione per poter commemorare la ricezione della Legge.
Il fatto che la tradizione ebraica leghi strettamente Shavuot al compimento dell’esodo, ovvero alla liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, è ricco di significati. Dice che la libertà non è fine a se stessa, o semplicemente “da” qualcuno, ma è per qualcosa. Dopo la liberazione materiale di Pesach [Pasqua], Pentecoste rappresenta il raggiungimento della libertà spirituale per mezzo del dono della Torà. La vera libertà infatti consiste nella volontaria sottomissione alla legge morale. Dato che a Pentecoste Israele ricordava il dono della Legge ricevuta al Sinai, Rut la moabita viene interpretata nella letteratura giudaica rabbinica come la straniera che accetta volontariamente questo giogo.
Per illustrare meglio l’idea, dobbiamo ricorrere ad un midrash: «Prima di dare la Legge ad Israele, Dio si rivolse ad ogni tribù e ad ogni nazione, e offrì loro la Torah, perché non potessero poi avere scuse e dire “Se il Signore, benedetto Egli sia, avesse voluto darci la Torah, noi l’avremmo accettata”. Così Dio andò dai figli di Esaù, e chiese loro: “Accettate la Torah?”, e questi gli risposero: “Cosa ci sta scritto?”. Egli rispose: “Non uccidere”. Allora dissero tutti: “Ci vuoi togliere la benedizione dalla quale siamo nati? Siccome Esaù è stato benedetto con le parole Vivrai della tua spada (Gen 27,40), non accettiamo la Torah”. Allora andò dai figli di Lot, e domandò loro: “Accettate la Torah?”, ed essi risposero: “Cosa ci sta scritto?”. “Non commetterai incesto”.
Questi risposero: “Dall’incesto noi deriviamo; non vogliamo accettare la Torah”. Allora andò dai figli di Ismaele e disse loro: “Volete accettare la Torah?”, e questi gli domandarono: “Cosa ci sta scritto?”. Ed egli rispose: “Non rubare”. Ed essi dissero: […] “Non vogliamo accettare la Torah”. Allora Dio andò da tutte le altre nazioni, che allo stesso modo rigettarono la Torah, dicendo: “Non possiamo abbandonare le leggi dei nostri padri, e non vogliamo la tua Legge; dalla al tuo popolo, Israele”. Dopo di questo Egli venne da Israele, e disse loro: “Accettate la Torah?”. Ed essi risposero: “Cosa ci sta scritto?”. Egli rispose: “Seicentotredici precetti”.
Allora essi dissero: “Tutto quello che il Signore ha detto, noi lo faremo, e ad esso obbediremo”» (SifDev 343). In questo modo si può spiegare perché il libro di Rut era proclamato nelle sinagoghe (e lo è ancora) in occasione di Pentecoste/Shavuot. Mentre tutti i popoli della terra, proprio a Pentecoste, rifiutarono il giogo della Legge (e tra questi vi sono anche i moabiti), Rut è la rappresentante di una nuova risposta, di un riscatto, di una straniera che si sottopone alla Legge, perché ad essa, come dice il midrash, in pratica già obbedisce. Quando poi Rut dice a Noemi «il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio» (Rt 1,16), è come se pronunciasse, con tutto Israele sotto il Sinai, la formula dell’alleanza: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto» (Es 24,7).
In questo modo, Rut davvero dona tutta se stessa a Dio, come Israele al Sinai: venuta da una popolazione riprovata, i cui maschi sono per sempre interdetti, esclusi dal diritto di conversione all’ebraismo secondo i termini espliciti della Torah di Mosè, Rut è stata la prima ad aver compiuto il salto nella fede. Ella compie un’oblazione di tutto il suo essere, ed è ciò che ricordiamo il giorno del dono della Legge .La festa del re Davide, discendente di Rut
Secondo la genealogia che si viene a trovare alla fine del libro di Rut, la moabita è un’antenata del re Davide, ed è come l’anello di una catena, o se si preferisce, un ponte, che porta dalla storia triste del tempo dei giudici all’istituzione della monarchia.
L’importanza del legame familiare tra Rut e il re Davide emerge però anche nel Primo libro di Samuele. Lì si racconta che Davide, fuggendo da Saul che si era ingelosito delle lodi delle donne che cantavano «“Ha ucciso Saul i suoi mille e Davide i suoi diecimila”» (1Sam 21,12), si rifugia a Moab, insieme ai «suoi fratelli e tutta la casa di suo padre» (1Sam 22,1) cercando protezione tra coloro che, pur nemici acerrimi di Israele, evidentemente conservavano una speciale relazione con lui, discendente della moabita.
La Tradizione Ebraica sulla Morte di Re Davide
Ecco perché non ci stupisce il trovare un ulteriore accostamento tra il libro di Rut e la Pentecoste, dato proprio dal fatto che il re Davide, secondo un’antica tradizione ebraica, sarebbe nato proprio durante questa festa, e in questo stesso giorno avrebbe visto la morte, dopo quarant’anni di regno (cf. 1Re 2,11)
Riportiamo la leggenda, nella traduzione di M. Perani: «Un giorno Davide chiese a Dio di conoscere il giorno della sua morte. Il Signore non assecondò la sua richiesta, perché aveva stabilito che nessun uomo potesse sapere in anticipo il momento esatto della sua morte. Tuttavia disse al re che egli sarebbe morto all’età di settant’anni e in giorno di sabato. […] Davide, saputo che sarebbe morto di sabato, ma consapevole anche che l’angelo della morte non può strappare all’uomo la sua vita mentre questi studia la Torah ed osserva i comandamenti di Dio, da allora cominciò a passare l’intero tempo del sabato nello studio della Torah. L’angelo della morte dovette perciò ricorrere all’astuzia per poter strappare a Davide la sua vita. Un sabato, in cui cadeva anche la festa di Pentecoste, Davide era assorto nello studio, quando udì un rumore proveniente dal giardino. Il sovrano allora si alzò e discese le scale che conducevano dal palazzo al giardino, per vedere quale fosse la causa del rumore. Non fece in tempo ad appoggiare i suoi piedi sui gradini che essi subito si incastrarono e Davide morì. Era stato l’angelo della morte a causare quel rumore, per potersi impossessare della vita del re in un momento di interruzione del suo studio della Torah».
Questo suggestivo racconto da una parte ci conferma il singolare dono fatto a Dio al suo eletto, Davide, che può morire di sabato e di Pentecoste: è il giorno in cui Israele ricorda proprio il dono della Legge e l’impegno assunto nel conoscerla e nell’osservarla, come richiesto dal Signore in Dt 6,6-7: «Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai».
Il dono dello Spirito a Shavuot/Pentecoste
Rimane un ultimo aspetto da prendere in esame a proposito del rapporto tra Rut e la Pentecoste. Anche se i cristiani tendono ad associare la discesa dello Spirito Santo esclusivamente a questa festa, seguendo il racconto del libro degli Atti degli Apostoli, è vero che in occasione di ogni festa di pellegrinaggio, secondo la tradizione giudaica, è donato lo Spirito di Dio. A mo’ di esempio, si può riportare il bel commento midrashico al libro della Genesi, dove si legge una interessante elaborazione dell’episodio di Giacobbe al pozzo. Il patriarca, in cammino nelle regioni di oriente in cerca di una moglie, «vide nella campagna un pozzo e tre greggi di piccolo bestiame distese vicino, perché a quel pozzo si abbeveravano le greggi» (Gen 29,2).
La caratteristica curiosa di quel pozzo era il fatto che «solo quando tutte le greggi si erano radunate là, i pastori facevano rotolare la pietra dalla bocca del pozzo e abbeveravano il bestiame» (Gen 29,3). Questo dettaglio ha scatenato l’esegesi ebraica, che ha visto nel pozzo la prefigurazione del Tempio di Gerusalemme, e nei tre greggi i simboli delle tre feste di pellegrinaggio durante le quali le tribù di Israele si radunavano nella città santa, oppure, secondo un’altra interpretazione, nell’acqua la Torah che esce da Sion e che dona la vita al popolo che ad essa si rivolge.
Nel midrash, soprattutto, si dice che come le greggi si abbeveravano a quell’acqua viva, così i figli di Israele che si recavano a Gerusalemme per le tre feste di pellegrinaggio venivano riempiti di Spirito Santo (BerR su Gen 29,2-3). Un lettore che ha familiarità con il Nuovo Testamento, non può non ritrovare analogie con il racconto giovanneo dell’incontro di Gesù con la donna samaritana, narrato in Gv 4. È ancor più intrigante il fatto che, secondo alcuni, la “festa dei Giudei” per la quale Gesù salì a Gerusalemme «dopo questi fatti» (Gv 5,1: ovvero dopo l’incontro al pozzo di Giacobbe con la donna di Samaria e dopo il secondo segno di Cana), potrebbe essere proprio Shavuot/Pentecoste. Ma non solo lo Spirito è donato a coloro che si recano a Sion per le feste previste dalla Legge: esso scende anche su coloro che studiano la Torah, donata da Dio al Sinai.
Chi studia la Torah, è circonfuso della stessa gloria e della Presenza di Dio che scendeva sul monte. Questo suggestivo racconto ci richiama alla mente non solo la Pentecoste cristiana, ma anche un episodio del Nuovo Testamento, quello di Gesù coi discepoli di Emmaus. Gesù che si mette a fare un tratto di strada coi discepoli, riprende in mano le Scritture, «cominciando da Mosè [la Torah] e da tutti i Profeti» (Lc 24,27). I due di Emmaus, commentando tra loro l’accaduto, dicono che «ardeva il loro cuore» (Lc 24,32), mentre Gesù spiegava quelle parole di Dio che si riferivano al Messia.Infine, l’episodio ci richiama ovviamente la Pentecoste cristiana, di cui parleremo subito. Prima però possiamo aggiungere ancora qualcosa sulla presenza dello Spirito Santo nel libro di Rut e nella festa di Shavuot.
Leggiamo la scena della moabita che si prepara per incontrare Booz, descritta in Rt 3,3 («Làvati, profumati, mettiti il mantello e scendi all’aia») e troviamo richiami simbolici proprio allo Spirito Santo: «Ora Rut si prepara ungendosi. Gli orientali usavano l’olio profumato per proteggere e guarire il corpo, e per rendersi attraenti. […] L’olio dell’unzione dice della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nella nostra vita. Tutti i credenti hanno ricevuto l’unzione dello Spirito (1Gv 2,20; 27), e dovrebbero essere il “profumo di Cristo” per il Padre celeste (2Cor 2,15). Un ulteriore dettaglio che ci permette di passare, finalmente, ad evidenziare alcuni aspetti della festa di Pentecoste come letta e interpretata dai cristiani, nel Nuovo Testamento: una Festa Cristiana.
Pentecoste: una Festa Cristiana per tutti i popoli e tutte le lingue
La Pentecoste, narrata da Luca nel libro degli Atti, racconta di un avvenimento con caratteristiche proprie rispetto alla celebrazione ebraica di Shavuot, ma anche se nel racconto lucano di Pentecoste non c’è alcun riferimento diretto al patto sinaitico, allusioni indirette fanno capire che Luca era consapevole dell’associazione della Pentecoste con il rinnovamento di quel patto .Molte parole usate dall’evangelista sono riprese dal racconto del dono della Legge al Sinai, e così la descrizione dell’evento, con i suoi suoni e le sue luci di fuoco.
La descrizione di Es 19,18 secondo cui «il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco, e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto», fornisce lo sfondo non solo per spiegare le «lingue di fuoco», ma anche il «fragore» che riempie la sala sul monte Sion a Gerusalemme.
Luca scrive che a Gerusalemme non vi erano solo Giudei, ma anche stranieri da tutte le nazioni sotto il cielo, comunque pur sempre circoncisi .La logica conseguenza è che la Pentecoste lucana è un fenomeno ecclesiale che ha come sbocco l’annuncio cristiano agli ebrei: nella scena Luca presenta solo giudei, cioè membri del popolo d’Israele (e non pagani): nella prima parte del libro [degli Atti] il vangelo è annunciato solo ad essi; questi ebrei di tutte le nazioni sono però simbolo di tutti i popoli a cui poi si rivolgerà l’annuncio che Gesù è il Messia.
L’affermazione lucana si potrebbe spiegare ricorrendo alla tradizione giudaica che interpretava l’evento del Sinai come destinato a tutti i popoli della Terra. Sotto quel monte, infatti, secondo il Talmud, non vi era solo l’assemblea di Israele, ma tutti i popoli, come scritto in questo testo talmudico: «R. Johanan disse: “che cosa significa il versetto Il Signore dà la parola: quelli che danno la notizia sono una grande schiera” [Sal 68,12]?
Ogni singola parola che esce dall’Onnipotente si divideva in settanta lingue. Queste settanta lingue, secondo la tradizione giudaica, erano le lingue parlate dai settanta popoli del mondo, come scritto in un altro testo talmudico, dove si discute su quali caratteristiche debbano avere i membri del Sinedrio, e si dice che devono essere sapienti, di bell’aspetto, di età matura, con diverse conoscenze, e capaci «di conversare in tutte le settanta lingue dell’umanità» (B. San 17b; Settanta è appunto il numero delle lingue della terra secondo altri testi rabbinici, quali PRE 24, Tg. Ps.-J. Gen 11,8, e in Rashi su Dt 1,5), in modo che nessun interprete debba essere richiesto dalla corte, intendendo così che tutte le lingue dovevano essere conosciute nel Sinedrio.
La Pentecoste raccontata da Luca nel libro degli Atti degli Apostoli è la memoria del dono dello Spirito alla Chiesa, ma è anche profezia dell’apertura universale dell’ebraismo e del cristianesimo, apertura che si mostra nella capacità di parlare le lingue degli altri: la Legge, con la comunità messianica di Gesù, potrà presto, ma non prima della Pentecoste dei pagani (At 10,44), giungere davvero a tutti.«Da Sion uscirà la Torah» (Is. 2,3): Rut non esce da Moab.
Questo è stato possibile grazie al cristianesimo. Diversamente da Rut, che uscendo da Moab, è entrata nell’alleanza e ha scelto di assoggettarsi alla Legge, è stato il Vangelo, portato dai cristiani, ad uscire da Gerusalemme, già con la Pentecoste cristiana, e questo ha permesso che la Legge fosse conosciuta anche dai pagani.
Poiché secondo alcune tradizioni rabbiniche, la Legge era stata offerta a tutti i popoli al Sinai, ma essi l’hanno rifiutata, ora, con Shavuot/Pentecoste, a tutti i popoli del mondo è data una nuova opportunità. La grande visione di Isaia 2,2-3, dove il profeta descriveva come «alla fine dei giorni, al monte del tempio del Signore… affluiranno tutte le genti», e come tutti i pagani sarebbero saliti a Gerusalemme (e con essi la moabita!), diceva anche che «da Sion uscirà la Legge e da Gerusalemme la parola del Signore». Nell’interpretazione patristica (Girolamo e altri), Rut è figura della Chiesa che proviene dai Gentili; con la Pentecoste cristiana, Rut non esce più da Moab per andare a Betlemme, è la Chiesa che va incontro a lei.
Ora, le parole di Isaia hanno un nuovo significato: il monte Sinai è diventato il Sion, il luogo di Gerusalemme dove, tradizionalmente, la comunità cristiana ha proprio localizzato la nascita della Chiesa e l’episodio della Pentecoste secondo il racconto di Atti degli Apostoli (tradizione già in Cirillo di Gerusalemme, prima del 348 d.C.)
In una festa di Pentecoste/Shavuot, la comunità messianica di Gerusalemme, ha sperimentato che Gesù è il Messia, la Torah vivente, la Parola di Dio, venuto a vivere e a spiegare la Parola di Dio: ora, il suo Spirito – donato ad ogni festa di pellegrinaggio – dona ai discepoli di capire quanto è accaduto: «questi uomini non sono ubriachi» (At 2,15), ma inebriati delle parole di Dio a cui hanno potuto accedere tramite Gesù. Se i discepoli di Emmaus avevano il cuore che bruciava loro nel petto, la Chiesa di Pentecoste, ora sul monte Sion, ha finalmente accesso alla cantina del Sinai.
Considerazioni finali: La lettura liturgica del rotolo di Rut
A conclusione della lettura di Rut, possiamo riprendere alcune considerazioni sulla collocazione del rotolo nella liturgia ebraica, e precisamente nella festa di Pentecoste. In essa Israele commemora l’alleanza stipulata al Sinai tra JHWH ed il popolo, con il dono della Tôrāh; Šābū ô̔ t, la festa delle settimane, è infatti celebrata il cinquantesimo giorno dopo
Pasqua. In origine, era la festa cananea della raccolta, nella quale si offrivano le primizie.
Per molto tempo questa festa rimase una semplice festa di raccolto, senza essere rapportata a qualche determinato evento della storia di Israele o a qualche azione di Dio verso il suo popolo.
Solo con il codice sacerdotale vi è una connessione chiara tra la rive- lazione al Sinai e questa festa (cf Es 19,1). Se nell’originaria festa del raccolto si partiva dal presupposto che la terra e i campi appartengono alla divinità e, quindi, vanno offerte alla divinità le primizie del raccolto, quale garanzia dei raccolti futuri, ora il centro della festa sta non più nella raccolta, ma nel dono della Legge.
Il risultato è che il senso della festa è ormai abbastanza chiaro: da un lato essa è espressione di riconoscenza per la benedizione del raccolto e dall’altro dà un secondo fondamento alla fede giudaica, cioè la fede nella divina rivelazione, nella manifestazione della Toràh divina. E. se la Pasqua era poeticamente descritta come il tempo del fidanzamento di Israele con Dio, così Šābū ô̔ t corrisponde al tempo del matrimonio.
Il punto simbolico, culminante, ciel tempo della preparazione alla festa si ha nella notte della festa, in cui, a partire dal Medio Evo, cerchie di cabalisti «insegnavano la Tôrāh». I Qabbalisti, infatti, ritenevano che a mezzanotte il cielo si aprisse per accogliere, con be-nevolenza, le preghiere e le meditazioni dei pii, che celebrano la lunga veglia la sera precedente la festa della rivelazione della Torah.
Il libro di Rut è letto in questa festa per più motivi. Il fatto che si parli della mietitura è uno dei motivi esteriori. Più importante è invece il ruolo che la legge svolge nella sopravvivenza di queste due donne povere. Grazie alla legge della redenzione e quella della spigolatura, la povera Noemi e la straniera Rut incontrano la misericordia del Dio di Israele che continua a porre il suo sguardo misericordioso sui poveri.
Bisogna inoltre conoscere una tradizione giudaica del libro apocrifo dei Giubilei, secondo il quale la festa di Pentecoste era celebrata già in cielo fin dalla creazione ed era stata rivelata a Noè nel giorno stesso in cui Dio aveva concluso l’alleanza con ogni vivente, cioè il giorno 15 del terzo mese.
Alleanza cosmica ed universale si saldano insieme con quella confermata ad Abramo e con quella conclusa con Mosè e il popolo il 50° giorno dall’uscita dell’Egitto. Pentecoste è dunque la festa dei giuramenti di Dio e di quelli degli uomini verso di Lui.
Il libro di Rut è davvero l’esaltazione di questo Dio fedele che mantiene la sua promessa verso gli uomini, e della fedeltà delle persone agli impegni da esse assunti verso di Lui e verso il prossimo. Rut è come l’incarnazione di questa fedeltà, mantenuta a caro prezzo; per questo i Rabbini dicono che la lettura di Rut è stata prescelta per Pentecoste in quanto «la legge si può ottenere solo a prezzo di molte sofferenze»
«Per i cristiani Pentecoste è la festa della nuova Alleanza, celebrata anch’essa nel 50° giorno come completamento della Pasqua del Signore avvenuta con la croce e la resurrezione. La legge cede il posto allo Spirito e nasce la Chiesa in una nuova alleanza. Rut dunque potrebbe essere giustamente letto anche nella Chiesa la vigilia di Pentecoste tenendo soprattutto conto dell’interpretazione dei Padri che vedono nella donna protagonista del libro la «Ecclesia ex gentibus», ammessa al banchetto del Regno: “vieni, mangia il pane e intingi il boccone nel vino” (2,14); “rimani insieme ai miei servi, finché abbiano finito tutta la mia mietitura”»