DALLA DISTRUZIONE DEL TEMPIO DI GERUSALEMME AL GENOCIDIO IN PALESTINA. Analisi delle Origini del Giudaismo
- CRISTIANI PERSEGUITATI, Europa e UE, GEOPOLITICA – ECONOMIA, Israele, Italia, Medio Oriente, Medjugorie – Profezie Cristiane e Mariane, NWO – COSPIRAZIONI – MASSONERIA, OPINIONI, Palestina, Religione Cristiana, SOCIETA’ – BIOETICA, ZONE DI GUERRA
Indice dei contenuti
- “Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni” (Matteo 26,59-61)
- Pianto di Gesù sulla città santa
- Il cortile dei gentili
- Chiese sulla spianata che fu del tempio
- Gli ebrei ritornano 1967
- Per impulso di un Dio
- La misteriosa ed enigmatica testimonianza di Giuseppe Flavio
- Grideranno le pietre
- L’aspettazione che percorreva l’impero romano
Nell’immagine di copertina Francesco Hayez – particolare della Distruzione del Tempio – Galleria dell’Accademia di Venezia
di prof. ssa Paola Persichetti
Tempio di Gerusalemme, cuore dell’ebraismo, violentemente e misteriosamente ridotto in cenere dai romani, contro la loro stessa volontà, nell’estate dell’anno 70. Da allora, e pianto tre volte al giorno dal pio ebreo con la straziante preghiera “possa essere la tua volontà che il tempio sia presto ricostruito nei nostri giorni!“ ogni anno-preceduto da 10 giorni di astensione dal vino, dalle carni, dal rifiuto di tagliarsi barba e capelli-ecco il rigoroso digiuno del 9 di Av ( 10 Agosto), con i neri addobbi sull’armadietto che custodisce i rotoli del pentateuco.
È il giorno in cui si commemora la rovina totale, quando il sacrificio a Dio del mattino e della sera, con l’Olocausto delle vittime sull’altare, terminò per sempre. È chiaro che nessun lettore si chiederà perché abbiamo intenzione di dedicare tanta attenzione al tempio di Gerusalemme in questo periodo di guerra tra Israele e Palestina.
“Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni” (Matteo 26,59-61)
Il tempio di Gerusalemme non era solo il monumento principale, il tempio era Gerusalemme stessa, anzi era Israele tutta intera e la sua rovina significò la rovina della nazione, Il passaggio dall’ebraismo ad una nuova fase, detta del “giudaismo”, che dura tuttora (malgrado il ritorno, ma “senza Messia“, in Palestina; e malgrado certi progetti attuali di ricostruzione di cui parleremo).
Quella distruzione significò la scomparsa fisica, o almeno, la perdita di significato dell’intera classe sacerdotale, con i sadducei che soprattutto la componevano, e il passaggio all’economia della sinagoga; la quale è un surrogato di necessità, dove a Dio si offrono le parole della preghiera ma non più le vittime sacrificali e dove si è fatto presto quasi assoluto il dominio dei farisei.
Su quell’alta acropoli a est di Gerusalemme – quel monte Moria sul quale fu traslato il nome di Sion per indicare la città, anzi la nazione intera-non ci si limitava a invocare l’eterno, ha immolare a lui cataste di animali.
Li – nella vuota, inaccessibile stanza del Sancta Sanctorum, dove solo il sommo sacerdote poteva penetrare una volta l’anno – lì era allo sgabello di Jahvé, il trono dove abitava la Shekinah, la sua presenza gloriosa. Per Israele, il tempio era tutto: non soltanto sul piano religioso, ma anche su quello sociale, economico. Basti ricordare che, quando fu terminato, nel 64 d.C., sei anni prima della distruzione, 18.000 lavoratori restarono disoccupati.
La legge prescriveva di venirvi in pellegrinaggio tre volte l’anno, a Pasqua, a Pentecoste, per la festa delle Capanne. Anche gli ebrei dispersi nel mondo rispettavano il precetto, spesso aldilà della misura minima obbligatoria per essi di almeno una volta nella vita. Così, sulla grande spianata esterna, aperta a tutti, nella successione dei cortili riservati agli ebrei, era tutta la nazione che si incontrava, si scambiavano notizie,si discuteva sulla scrittura, si confermava nella solidarietà e nella fede. Per gli abitanti di Gerusalemme, poi, quel luogo assolveva le funzioni quotidiane svolte dall’agorà nelle città greche, dal foro in quelle romane, da quella che sarà la piazza nei comuni del medioevo cristiano. Dobbiamo aggiungere, però, agli usi legittimi di luogo di incontro, anche quell’aspetto sfacciatamente commerciale che susciterà la ben nota ira e la conseguente reazione violenta di Gesù.
Pianto di Gesù sulla città santa
Il pianto di Gesù sulla città santa è, in realtà un pianto sul tempio, dal quale Dio si allontanerà lasciando deserta la sua “casa“ che era stata anche la casa di tutti gli israeliti. “Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è lasciata a voi deserta!“ (Matteo 23,37-38).
Procediamo oltre: verso il mistero. Sarà interessante interrogarsi sul significato che l’immane edificio ebbe non solo per l’ebraismo a esso contemporaneo, non solo per Gesù, non solo per i tempi della primitiva comunità cristiana di origine ebraica; ma sul significato enigmatico che dopo la sua distruzione radicale, nel 70 assunse sia per il giudaismo superstite che per il cristianesimo. Forse il tempio continua ad assolvere la sua funzione sacra di testimonianza a Dio anche da quando è ridotto al ricordo.
Come ha scritto Guido Cavalleri, un biblista ormai scomparso e che alla competenza scientifica affiancava quella consapevolezza religiosa indispensabile per il credente che legge la scrittura: “sulla spianata di Gerusalemme, nei resti di quello che fu il santuario della città santa, la fede scorge l’adempimento di profezie che ne fanno un segno visibile finché i tempi dei pagani non siano compiuti“.
La citazione che Cavalleri dà alle parole scritte in neretto è del testo di Luca, il quale, unico tra gli evangelisti, nel discorso escatologico attribuisce al Cristo una predizione: “Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani non siano compiuti” (21,24).
I “tempi dei pagani“ sono questi nostri, è tutta la storia della morte e resurrezione del Cristo sino al suo ritorno quando, tra i segni che l’annunceranno-assicura Paolo-vi sarà l’ingresso nella chiesa dell’intero popolo ebraico:“ Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’ostinazione di una parte di Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti. Allora tutto Israele sarà salvato… (Romani 11,25-26).
Per tornare alla profezia di Gesù secondo Luca, calpestare Gerusalemme è sinonimo di calpestare il suolo del tempio, visto che la città era santa proprio perché ospitava quel luogo santo per eccellenza, il trono dove abitava lo spirito di Dio. Ed è davvero singolare che, sino a ora-dunque, per più di 2000 anni-la profezia appaia esattamente adempiuta. E, prima, adempiuta malgrado gli ebrei; in seguito per loro volontà stessa. Vediamo.
Il cortile dei gentili
Sul muro dove terminava il grande cortile dei gentili, aperto a tutti, stavano vistose lapidi in ebraico, greco e latino: le stesse lingue cioè del cartello che Pilato fece appendere sopra la croce del Nazareno. Quelle lapidi avvertivano solennemente che chi, non ebreo, avesse varcato quel limite, sarebbe stato messo a morte. Con la caduta di Gerusalemme, la situazione inopinatamente si rovescia: l’imperatore Adriano, al termine della seconda rivolta giudaica, cambia addirittura il nome della città latinizzandolo in a Aelia Capitolina; e sulla spianata del Tempio – raso al suolo mezzo secolo prima da Tito- fa innalzare statue degli dei pagani.
Dove era stata la porta sud, quella verso Betlemme fa piazzare una testa di porco: era all’insegna della 10ª legione Fretensis, che presidiava le rovine della città; ma era anche un insulto feroce a un popolo per il quale il maiale era l’animale impuro per eccellenza, un simbolo del diavolo stesso.
Già dal 70, il tributo che gli ebrei, anche nella diaspora, dovevano versare per il tempio continuava a essere riscosso, ma per andare a favore non più della casa di di Jahvè, ma di quel tempio a Giove sul Campidoglio di Roma dove Tito aveva concluso il suo trionfo deponendo, davanti all’altare di Zeus, le spoglie che nel santuario di Gerusalemme era riuscito a salvare: il grande candelabro d’oro a sette braccia, la tavola, in oro massiccio, per i panni della preposizione, un esemplare della Torah, la legge ebraica.
Soprattutto, Adriano espelle dalla sua Aelia Capitolina e dai dintorni, per un largo giro intorno, tutti gli ebrei; non potranno riavvicinarsi alle mura né tantomeno varcarle se non vorranno essere uccisi sul posto. Dove solo i circoncisi potevano entrare, ora possono entrare tutti, tranne i circoncisi.
Chiese sulla spianata che fu del tempio
Con Costantino, anche sulla spianata che fu del tempio, come in tutta Gerusalemme, i cristiani elevano le loro chiese (e fallirà, il tentativo di riedificarvi il santuario ebraico durante l’effimera restaurazione degli antichi culti sotto Giuliano l’Apostata).
Ma ecco, nell’VIII secolo, l’invasione degli arabi che, della spianata fanno luogo fra i più sacri dell’islamismo. Cioè, “il nobile recinto sacro“. In effetti, i musulmani affermano che anche Maometto volle riconoscere la santità di Gerusalemme e, in particolare, del luogo dove sorgeva il tempio al Dio unico.
Dunque, avvicinandosi la morte, il profeta sarebbe volato sin quì-dove l’attendevano Abramo, Mosé e Gesù – sulla sua giumenta alata, Burak, e da qui sarebbe asceso al cielo; qui, dunque, in quello stesso VIII secolo, attorno alla roccia che era stata altare per i sacrifici ebraici, i musulmani costruirono la moschea detta di Omar e, pochi decenni dopo, la moschea “la remota“, in quanto era allora la più lontana dalla Mecca.
Ma il 15 luglio del 1099 (e per 88 anni, sino al 1187) ecco irrompere qui l’esercito dei crociati che trasformarono la moschea di Omar in chiesa e la moschea “La remota“ prima in palazzo per Baldovino, il re latino di Gerusalemme, e poi in “gran capitaneria“ per i cavalieri dell’ordine detto “del tempio“ proprio per il luogo dove era ubicata la loro casa madre. Ritiratisi cristiani, le costruzioni tornarono al culto musulmano, al quale ancora adesso appartengono.
Gli ebrei ritornano 1967
Quando, nel 1967, gli ebrei ritornarono, con le armi, in possesso anche di questa parte di città, dopo quasi 2000 anni da che non avevano più avuto il controllo di Gerusalemme, il generale Moshé Dayan – a nome del governo di Israele -rassicurò gli arabi islamici sul libero, anzi esclusivo, godimento della spianata. E non solo per ragioni politiche, per evitare cioè l’ulteriore esasperazione dei vinti che qui hanno il loro luogo più sacro dopo la Mecca; ma soprattutto per ragioni religiose, tutte ebraiche. In effetti, da quando il tempio fu distrutto, gli ebrei si sono sempre vietati di accedere al luogo dove sorgeva, perché affermano di non essere più in grado di stabilire dove fosse ubicata la sala vuota del Sancta Sanctorum.
Non entrano nella spianata, dunque, perché temono di calpestare un luogo che nessun piede umano può più toccare da quando, con la fine dei sacrifici e del sacerdozio che vi era dentro, non c’è più un sommo sacerdote che, unico, poteva lasciare lì le sue orme.
È davvero sorprendente: tutto ciò sembra confermare la profezia che Luca attribuisce a Gesù e secondo la quale, sino alla fine dei tempi, solo i“Pagani“ (cioè, unicamente i non ebrei) “calpesteranno Gerusalemme“: calpesteranno quel luogo, che tutta la riassume, che è la spianata del Tempio. Gli ebrei, anche di oggi, che pure qui hanno di nuovo la loro capitale, si limitano a radunarsi nella sinagoga all’aperto ricavata davanti al muro che – significativamente-si chiama “del pianto“. Dove davvero si piange, e con alti lamenti, sulla giornata in cui i romani distrussero quella casa di Dio.
Per impulso di un Dio
“ Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio. Egli disse loro: “non vedete tutte queste cose? In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta “. (Matteo 24,1-2).
“Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccogli i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa e lasciate a voi deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più, fino a quando non direte: benedetto colui che viene nel nome del signore!“(Matteo 23,37-39).
Ecco dunque il cuore del mistero-davvero inquietante-nel quale vogliamo inoltrarci: è un fatto che oggi, al posto del grande santuario, non vediamo che è una spianata sulla quale sorgono le moschee di una fede sorella e al contempo antagonista come la mussulmana; ebbene, quel fatto corrisponde a una profezia di Gesù . Quelle rovine potrebbero essere davvero un segno, muto e al contempo eloquentissimo (“se questi taceranno, grideranno le pietre“ Luca 19,40), della verità messianica del Galileo. Non si dimentichi che il tempio distrutto nel 70 d.C. era il terzo costruito su quella stessa spianata dagli israeliti: era logico supporre che la loro fede indomita e che gli sforzi di tutto quanto il popolo non avrebbero esitato a ricostruir un quarto.
E, infatti, pare che si tentasse di farlo nel 132 d.C., al tempo della seconda rivolta, ma ne mancò il tempo per la controffensiva romana, ancora una volta vittoriosa e devastatrice. Si cominciò ancora una volta a riedificarlo nell’anno 362 con l’aiuto, questa volta, dall’imperatore stesso, Giuliano detto L’ Apostata, che sembra fosse spinto proprio dal desiderio di aiutare gli ebrei a smentire quelle profezie del Vangelo di cui dicevamo. Ma quella ricostruzione dovete essere subito interrotta per una sorta di misteriosa opposizione divina: è una storia affascinante (e forse troppo trascurata) sulla quale dovremmo tornare.
E sarebbe interessante parlare anche del riemergere di progetti di riedificazione proprio nell’Israele di questi anni: ma, per non anticipare diremo solo che alle molte altre difficoltà (frapposte, tra l’altro, dagli ebrei ortodossi) si aggiunge quella terribile che toccare quel luogo ormai sacro all’Islam, demolendo tra l’altro (ne’ si potrebbe fare altrimenti) due delle moschee più venerate, scatenerebbe una “guerra santa“ rispetto alla quale l’opposizione musulmana vista sinora non sarebbe che un pallido anticipo.
Comunque sia, a rendere inquietante e dal suono misterioso la profezia di Gesù sulla rovina imminente e definitiva del tempio concorrono anche le circostanze in cui quella rovina avvenne, circostanze che ci sono narrate da un testimone insospettabile come Giuseppe Flavio, il capo ebreo passato ai romani e divenuto storico della loro vittoriosa campagna, ma senza rinnegare la fede dei padri. Anzi, restandone infaticabile convinto apologeta sino alla fine.
La misteriosa ed enigmatica testimonianza di Giuseppe Flavio
Giuseppe Flavio discendeva da una famiglia illustre e aveva 29 anni quando scoppiò la prima rivolta contro Roma. Diresse la difesa della Galilea e, dopo il disastro delle sue truppe, fu tra i pochissimi superstiti cui fosse risparmiata la vita. Condotto prigioniero davanti al comandante in capo, Vespasiano, gli profetizzò che sarebbe divenuto imperatore. Quando questo avvenne davvero, due anni dopo, gli fu ridata la libertà e come interprete ed esperto di cose ebraiche, visse a fianco del nuovo responsabile delle operazioni dell’esercito romano, Tito, il figlio di Vespasiano.
Dopo la distruzione di Gerusalemme e la rovina definitiva di Israele, si stabilì a Roma dove, con La guerra giudaica, descrisse l’immane tragedia di cui era stato prima protagonista e poi testimone tra il 66 e il 70.
Si avverte subito qualcosa di enigmatico, di misteriosamente provvidenziale nel fatto che non solo sia stata scritta, ma ci sia stata conservata una simile testimonianza di uno, che certamente cristiano non era, su ciò che Gesù ha detto e profetizzato. A rendere ancora più strano il caso c’è il fatto che la maggior parte della storiografia antica è andata perduta, non è riuscita giungere sino a noi nello sfacelo dell’antichità e nell’incendio, nella dispersione di biblioteche e archivi. Una sorte che avrebbe potuto seguire anche “la guerra giudaica“ visto che l’edizione originale, in aramaico, ottenne una diffusione limitatissima, anzi fu intercettata e distrutta quando era possibile dalle superstiti comunità ebraiche sparse nella diaspora che non perdonavano a quel “traditore“ di essersi “venduto“ ai romani.
Il caso di Giuseppe Flavio ci pone di fronte ad un vero reportage giornalistico dove il giornalista, per giunta, non è un anonimo, ma è uno dei figli più illustri della casta sacerdotale e nobiliare e ebraica. Giuseppe era nato a Gerusalemme stessa: il padre era membro della prima delle 24 famiglie sacerdotali, la madre veniva dalla stirpe reale degli Asmonei. È particolarmente significativo il passaggio di un simile ebreo a fianco dei romani. Certamente non fu una diserzione per aver salva la vita: egli aveva resistito ben 47 giorni, con un vigore un ardimento che stupirono lo stesso Vespasiano e che furono tra i motivi per cui venne risparmiato. Inoltre quel suo esporsi a fianco dei romani costava la prigionia a tutti i suoi familiari, restati intrappolati dentro Gerusalemme.
Ciò che spinse Giuseppe nel campo nemico, non significò l’abbandono di una fede alla quale rimase sempre fedele, ma fu piuttosto la persuasione che era necessario fare un atto di sottomissione nei confronti degli assedianti: “Io credo che Dio abbia ormai abbandonato questo luogo sacro e sia passato dalla parte dei romani che voi ora combattete“ fu il suo grido. Di lui possiamo dire che era “un vero israelita“ fedele alla legge, ma che mostra di aver compreso che si è di fronte ad un senso di rovina e di distruzione finale che è quello dei Vangeli stessi.
Tutto il racconto della guerra giudaica dato da Giuseppe Flavio si svolge sullo sfondo inquietante delle profezie che incombono su Israele ed in particolare su Gerusalemme; e, in modo particolare ancora, su quel tempio che Tito, a ogni costo, cercherà invece di salvare. I romani si adoperarono per preservare il tempio per una sorta di sgomento davanti a quel Dio misterioso e a quella immane costruzione in suo onore, dove persino i tetti erano tutti rivestiti in lamina d’oro e che non aveva pari in tutto il mondo conosciuto.
Lo stesso Tito, pacioso discendente di contadini del reatino e terrorizzato davanti al misterioso Dio di questi orientali, ad un certo punto per risparmiare un tempio straniero stava causando una strage tra i suoi uomini. Infatti-dopo che con sforzi e perdite immani i legionari erano giunti a ridosso dell’edificio, avendo occupato e diroccato la fortezza Antonia-il comandante si ostinava non solo a non dare l’ordine di incendiare il santuario, ma faceva lavorare le macchine d’assedio su elementi secondari della struttura, per causare all’edificio sacro il danno minore possibile. Finalmente, Tito si decise a dare ordine di incendiare le porte esterne dei cortili, rivestite di argento; i giudei si sentirono senza più forza nel coraggio e non riuscirono a muovere un dito per porre riparo e per spegnere l’incendio, restando impietriti a guardare.
Siamo giunti al giorno fatale, quello che per tutti i secoli sarà il lutto per l’ebreo che lo rievocherà quotidianamente tre volte e la cui ricorrenza annuale sarà preceduta da una decade di lutto e digiuno, velando di nero i rotoli della legge.
Quel 10 di Loos, quel 6 Agosto dell’anno 70 d.C. era lo stesso giorno in cui una volta il tempio era stato già incendiato da parte del re dei babilonesi. Una coincidenza cronologica in cui ancora una volta Giuseppe Flavio scorge il dito di un Dio che fa impazzire coloro che vuol perdere:
“Le fiamme ebbero inizio e furono causate dai giudei. Infatti, ritiratosi Tito, i ribelli dopo un breve riposo, si scagliarono di nuovo contro i romani e infuriò uno scontro fra i difensori del santuario e i soldati intenti a spegnere il fuoco nel piazzale interno. Costoro (i legionari romani), volti in fuga i giudei, l’inseguirono fino al tempio e fu allora che un soldato, senza aspettare l’ordine e senza provare alcun timore nel compiere un atto così terribile, spinto da una forza soprannaturale, afferrò un tizzone ardente e, fattosi sollevare da un commilitone, lo scagliò dentro attraverso una finestra dorata che dava sulle stanze adiacenti al santuario sul lato settentrionale“ (storia giudaica)
Un cristiano non può leggere una simile espressione in un autore non cristiano e non provare emozione: la distruzione del tempio simbolo dell’antica alleanza, superata ormai da una nuova.
Ma anche la reazione dei superstiti di Gerusalemme dove Gesù era stato mandato a morte e sulla quale aveva pianto fu una reazione terribile: “a levarsi delle fiamme, i giudei proruppero in un grido terrificante contro quel tragico momento e, incuranti della vita e senza risparmio di forze, si precipitarono al soccorso, perché stava per andare distrutto quello che fino ad allora avevano cercato di salvare.“
Ma-Giuseppe lo sottolinea con dolore e insieme con rassegnazione-nulla si poteva fare contro il volere divino che sovrasta gli uomini e sembra usarli come strumenti inconsci della sua volontà. “Contro il volere di Cesare, il tempio fu distrutto dalle fiamme” è ancora il giudeo che parla.
Grideranno le pietre
Vicino alla discesa del monte degli ulivi, cioè nel luogo dal quale più imponente appariva l’enorme costruzione del tempio, con i suoi basamenti che, partendo dalla valle del Cedron, si innalzavano sino a 80 m, Gesù pronuncia: “Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre“ (Luca 19,40).
Alla sommità, a rendere ancora più grandiosa la visione, correva lunghissimo, con le sue colonne, il portico di Salomone. E dunque, le pietre che avrebbero gridato sono, incontestabilmente, quelle del tempio che, ancora intatto, sorgeva davanti a Gesù.
Subito dopo Gesù, nello stesso Vangelo, piange sulla sorte terribile che sovrasta Gerusalemme: “Distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata“ (Luca 19,44). Queste pietre sono circondate dall’enigma di profezie e di avvenimenti storici umanamente inspiegabili.
Molti oracoli stavano nelle scritture ebraiche e nelle tradizioni antiche: “la guerra dei giudei contro i romani fu la più grande non soltanto dei nostri tempi, ma forse di tutte quelle fra città e nazioni di cui ci sia giunta notizia“ ci fa riflettere sempre Giuseppe Flavio. Se qualcuno vedesse qui qualche esagerazione, dovrà però ammettere che di certo fu la più feroce, la più sanguinosa, per la fanatica determinazione dei ribelli e la conseguente reazione implacabile dei romani.
Per capire la portata di ciò detto non dobbiamo dimenticare che in tutta la guerra i prigionieri dei romani furono 97.000 (se si considera anche che spesso i superstiti si suicidavano in massa piuttosto che arrendersi). Se 97.000 è il numero dei prigionieri dell’intera campagna, durata anni, solo per l’assedio di Gerusalemme, lo storico da l’impressionante cifra di 1.100.000 morti. E poiché è consapevole che un simile numero può suscitare incredulità, riporta calcoli precisi, fatti dai sacerdoti, per accertare quante persone ci fossero in città ogni anno al momento delle feste pasquali. Dunque l’intera nazione era stata come chiusa in prigione dal destino.
Oggi nel mezzo di una guerra tra Israele e la Palestina dovremmo tutti riprendere e rileggere le pagine de “La guerra giudaica“.
Fuori dalle mura e dal vallo di circonvallazione eretto dagli assedianti viene a mancare la legna per un raggio vastissimo, a causa della costruzione di croci, dove chi tenta di fuggire viene appeso in vari modi e forme, secondo il capriccio crudele dei soldati. Chi cerca di scappare finisce in questo modo, anche i disertori che si arrendono sperando di salvarsi fanno in realtà una fine orribile, sventrati per cercare nelle viscere monete preziose che avessero inghiottite. Dentro le mura, non la concordia nella sventura, ma l’odio che contrappone i gruppi di difensori; la pestilenza; soprattutto, la terribile penuria di viveri che porterà la maggioranza della popolazione a morire di fame, magari dopo aver pagato una fortuna un pezzo di cuoio di calzari da masticare o un pugno di fieno marcito.
Fino all’episodio spaventoso, a quel profumo di arrosto da una casa, con il conseguente accorrere degli zeloti per scoprirvi una donna di nome Maria di Elenazar, che aveva ucciso con le proprie mani il figlio lattante per mangiarselo. Quasi una esemplificazione tragica del lamento di Gesù: “guai alle madri che allatteranno in quel giorno“. Gli assediati, udito questo, “non vedevano l’ora di morire, stimando fortunato chi se ne era andato prima di vedere simili atrocità“. E quando la notizia del cannibalismo raggiunge gli accampamenti degli assedianti, “i più furono presi da un odio ancora più grande per i giudei“ e Tito “si protestò innocente di questa infamia davanti a Dio“, dandone la colpa ai soli giudei. Tutto attorno alla città molitura a fare da cornice al dramma, uno spaventoso pantano costituito dai cadaveri in decomposizione: da una torre sola gettarono 120.000 morti. E alla luce di questo quadro, che assume la sua verità di profezia, purtroppo realizzata, il pianto del Cristo su Gerusalemme. Gerusalemme ha avuto il peggior destino mai riservato ad una città; ma-ciò che più-a quel destino non poteva comunque sottrarsi.
Sembra che una mano misteriosa abbia deciso di far perire l’antico Israele e iniziare, con i superstiti, una nuova fase dell’ebraismo, ridotto a testimonianza dolente.
I sacerdoti sopravvissuti, arresisi, supplicarono tutti assieme il vincitore di risparmiare loro la vita. Ma, proprio in questo caso, quel Tito che si era mostrato clemente, nei confronti della distruzione del tempio, è ora inflessibile dando ordine di metterli tutti a morte.
È, dunque, la fine, anche fisica, del vecchio Israele il quale, infatti, da allora non avrà più né tempio né sacerdozio. Anzi, neppure avrà più uomini di stirpe regale perché, come ci insegna Eusebio di Cesarea, dopo la caduta di Gerusalemme l’imperatore Vespasiano ordinò di ricercare e uccidere tutti i discendenti della tribù di David, perché tra i giudei non rimanesse più nessuno di stirpe regale.
Alla luce di tutto ciò e di fronte al genocidio che sta avvenendo ora in Palestina può un cristiano non meditare su ciò che sembra confermare, con tale radicale tragicità, quanto la sua fede crede?
L’aspettazione che percorreva l’impero romano
Molti storici romani, ed è davvero singolare, ci informano dell’aspettazione che percorreva l’impero, dell’attenzione inspiegabile di tutti su quella piccola, disprezzata, remota provincia. Tacito: “Più grande, si diceva, sarebbe diventata la potenza dell’oriente e uomini usciti di Giudea avrebbero conquistato il mondo“.
Svetonio: “era annunciato come destino che, in quel tempo uomini usciti di Giudea avrebbero conquistato il mondo“. Entrambi scrivono tra la fine del primo e l’inizio del II secolo, quando i primi cristiani non erano che una setta trascurabile e semi sconosciuta che seguivano un uomo “venuto dalla Giudea“ e che avrebbe finito davvero per conquistare Roma e, con essa, tutto il mondo antico.
Resta il fatto che, nella profezia, credettero incrollabilmente quei milioni di ebrei che proprio fidando nell’arrivo in quel tempo del Messia, come essi lo intendevano (“Il dominatore del mondo ”), osarono affrontare la più grande potenza militare conosciuta e preferirono la morte più atroce alla resa.
Così, la terribile guerra è davvero una testimonianza resa involontariamente alla fede di coloro che in Gesù il Nazareno vedevano il Messia giunto, seppure in modo sommesso, a compiere l’attesa e proprio nel momento annunciato dai profeti ebraici e presagito persino dagli ignari pagani.
Il Messia venne ma non fu riconosciuto dagli ebrei; una sorta, dunque, di accecamento. Il biblista Guido Cavalleri, che già abbiamo citato, sottolinea come il popolo d’Israele non guardò né prestò fede ai segni manifesti che preannunciavano l’imminente rovina. Quasi fossero stati frastornati dal tuono e accecati negli occhi e nella mente, non compresero gli ammonimenti di Dio.
Sempre Giuseppe Flavio dopo averci descritto il tempio in fiamme, ci fa un elenco impressionante di quei segni manifesti; elenco che, quale che sia il giudizio, accresce e completa l’atmosfera arcana, la sensazione di forza del destino che sembra presiedere a quella grande tribolazione.
Erano passati 2177 anni, stando ai calcoli di Giuseppe, dalla fondazione di Gerusalemme alla sua distruzione nell’estate del 70. Distruzione tale “che nessuno, vedendo quel luogo, avrebbe potuto pensare che lì, sino a poco prima, sorgesse una grande città“
Siamo nel 2023, e il monte del tempio è rimasto ancora fonte di grandi tensioni geopolitiche e religiose.
Gli ebrei abbracciano la gnosi che fornisce a questo popolo una spiegazione e una nuova speranza dopo la distruzione del tempio e di conseguenza la fine della religione ebraica e l’inizio del giudaismo.
Il nemico numero uno della chiesa cristiana cattolica è proprio la gnosi ma di questo ne parleremo prossimamente.
prof. ssa Paola Persichetti
Paola Persichetti, oltre ad essere Associazione Trilly APS La Gente come Noi Terni e già leader del comitato spontaneo La Gente come Noi nella lotta contro l’imposizione di Green pass e Vaccini obbligatori, è Laureata in Lingue e Letterature Straniere, inglese, francese, lingua e Cultura ebraica, all’Università di Perugia con 110/110, bacio accademico e menzione d’onore. Corso di storia e del Cristianesimo antico, università Perugia. Master universitario in fonti, storia, istituzioni e norme del Cristianesimo ed Ebraismo.